20 Essentials: Free Jazz 1961-1972
20 Essentials: Free Jazz 1961-1972
di Enrico Bettinello con Dionisio Capuano, Piercarlo Poggio, Federico Savini e Christian Zingales
[nell'immagine: Ornette Coleman]
SE C’È UNA parola che nell’ambito della musica afroamericana rischia spesso di ritagliarsi un ruolo ambiguo, questa è l’aggettivo “new”. Muovendosi secondo coordinate di continuo dialogo con la tradizione e di quello che è stato felicemente definito the chaning same infatti, la cultura nera difficilmente si lascia addomesticare da quella che alla fine è una dialettica prettamente modernista, di “novità”, di superamento di uno stile per l’avvento di un altro e così via. Paradossalmente poi, è stato poi nell’era della prospettiva post-moderna che i prefissi “neo/new/nu” hanno trovato una più sistematica cittadinanza, necessaria alla più agevole definizione identitaria e commerciale.
A pensarci bene, il jazz ci ha messo un bel po’ a “cedere” a una dichiarata novità nella terminologia: nei suoi primi quarant’anni, gli unici “new” che contano sono le città di New Orleans e New York, tanto che nemmeno il “rivoluzionario” be-bop si fregia di tale aggettivo. Ci riesce, un quindicennio dopo il bop, quello che è stato chiamato “free jazz” [rapidamente incarnato dall’omonimo disco di Ornette Coleman] o, appunto, “new thing”, cosa nuova, una musica talmente traumatica, multiforme e inaspettata che si esita appunto a definirla solo come musica, preferendo quel thing che più di ogni analisi ci racconta la differenza, la matericità, la distanza di questi linguaggi da quanto era avvenuto prima.
Cos’era avvenuto prima? Il secondo conflitto mondiale era finito [e quello di Corea poneva le prime basi per la cosiddetta Guerra Fredda], per molti americani le condizioni volgevano verso un più diffuso benessere e nel mondo del jazz il “terremoto” be-bop era stato con una certa rapidità metabolizzato e addomesticato, sia in una direzione più apollinea come quella dettata dai musicisti portatori di un’estetica più cool, sia verso quel “sano” dionisismo di matrice blues che è alla base del cosiddetto hard-bop degli anni Cinquanta. Gli afroamericani non se la passano però benissimo, le tensioni sociali e razziali sono molto accese, anche se pure pubblico nero si appassiona a stili popular più gioiosi e tranquillizzanti come l’R&B. […]
…segue per 14 pagine nel numero 203 di Blow Up, in edicola ad Aprile 2015 al costo di 6 euro
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
[nell'immagine: Ornette Coleman]
SE C’È UNA parola che nell’ambito della musica afroamericana rischia spesso di ritagliarsi un ruolo ambiguo, questa è l’aggettivo “new”. Muovendosi secondo coordinate di continuo dialogo con la tradizione e di quello che è stato felicemente definito the chaning same infatti, la cultura nera difficilmente si lascia addomesticare da quella che alla fine è una dialettica prettamente modernista, di “novità”, di superamento di uno stile per l’avvento di un altro e così via. Paradossalmente poi, è stato poi nell’era della prospettiva post-moderna che i prefissi “neo/new/nu” hanno trovato una più sistematica cittadinanza, necessaria alla più agevole definizione identitaria e commerciale.
A pensarci bene, il jazz ci ha messo un bel po’ a “cedere” a una dichiarata novità nella terminologia: nei suoi primi quarant’anni, gli unici “new” che contano sono le città di New Orleans e New York, tanto che nemmeno il “rivoluzionario” be-bop si fregia di tale aggettivo. Ci riesce, un quindicennio dopo il bop, quello che è stato chiamato “free jazz” [rapidamente incarnato dall’omonimo disco di Ornette Coleman] o, appunto, “new thing”, cosa nuova, una musica talmente traumatica, multiforme e inaspettata che si esita appunto a definirla solo come musica, preferendo quel thing che più di ogni analisi ci racconta la differenza, la matericità, la distanza di questi linguaggi da quanto era avvenuto prima.
Cos’era avvenuto prima? Il secondo conflitto mondiale era finito [e quello di Corea poneva le prime basi per la cosiddetta Guerra Fredda], per molti americani le condizioni volgevano verso un più diffuso benessere e nel mondo del jazz il “terremoto” be-bop era stato con una certa rapidità metabolizzato e addomesticato, sia in una direzione più apollinea come quella dettata dai musicisti portatori di un’estetica più cool, sia verso quel “sano” dionisismo di matrice blues che è alla base del cosiddetto hard-bop degli anni Cinquanta. Gli afroamericani non se la passano però benissimo, le tensioni sociali e razziali sono molto accese, anche se pure pubblico nero si appassiona a stili popular più gioiosi e tranquillizzanti come l’R&B. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000